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Lo Smart Working oltre l’emergenza COVID-19

La vera sfida è cambiare la mentalità lavorativa

L’emergenza COVID-19 che stiamo affrontando oramai da molti mesi con uno spirito di resilienza che ha ridisegnato le nostre vite sul piano sociale e lavorativo, ha rappresentato l’occasione unica, per molti lavoratori e imprenditori, di immaginare ed attuare la chance di un modo diverso di organizzare il proprio lavoro. In questo senso, lo Smart Working è diventato, de facto, lo strumento più utilizzato per cercare di ridurre al minimo le possibilità di contagio senza però interrompere le attività lavorative.

Lo Smart Working come misura per prevenire il contagio

E non è un caso, quindi, se proprio lo Smart Working – o lavoro agile che è disciplinato dagli artt. 18-23 della l.81/2017 – è stato menzionato in quasi tutti i Decreti emanati dal Governo durante la fase di emergenza della pandemia, ed è stato citato come metodo preferenziale e talvolta obbligatorio per poter continuare a svolgere la prestazione lavorativa con l’obiettivo di conciliare le limitazioni dovute al blocco dei viaggi e alla chiusura dei luoghi di lavoro per garantire la continuità della produttività aziendale.

Secondo il rapporto ISTAT del 15 giugno 2020, il 90% delle grandi imprese con oltre 250 dipendenti e il 73% delle PMI ha introdotto o ampliato la possibilità per i propri dipendenti di impegnarsi nello Smart Working durante il periodo di emergenza, che si prevede al momento resti in vigore almeno fino al 30 aprile 2021. Anche le piccole imprese italiane (10-49 dipendenti) hanno visto un maggiore utilizzo dello Smart Working fino al 37,2%, mentre le microimprese (2-9 dipendenti) hanno consentito a circa il 18,3% dei propri dipendenti di utilizzare questo innovativo metodo di lavoro.

Nonostante i numeri importanti in un contesto nazionale spesso restio al cambiamento, va segnalato che ciò che molti si sono trovati a sperimentare, a volte in modo improvvisato, sono fondamentalmente misure per la prevenzione del contagio attraverso una forma di Remote Working – o Telelavoro – che non presenta, tuttavia, le caratteristiche dello Smart Working inteso in senso stretto.

Cosa si intende per Smart Working?

Il vero Smart Working si caratterizza, infatti, per la sostanziale libertà di scelta da parte del dipendente in merito ai tempi e ai luoghi della prestazione lavorativa, e per il fatto che l’attività deve essere orientata e valutata sulla base del raggiungimento degli obiettivi di produttività, concordati dall’imprenditore / datore di lavoro.

È quindi evidente che lo sviluppo e la diffusione dello Smart Working oltre i parametri dell’attuale emergenza pandemica, richiederà un cambiamento radicale nel modo in cui si instaura il rapporto di lavoro, ed è per questo necessario superare il modello fin qui sperimentato e introdurre nuovi modi di pensare per gestire gruppi di lavoro a distanza oltre a identificare obiettivi specifici, misurabili, realistici e definibili in un determinato periodo di tempo.

La necessità di un cambiamento organizzativo radicale

Se l’introduzione di un corretto Smart Working richiede la preparazione di radicali cambiamenti organizzativi, non deve spaventare l’evoluzione dei processi di lavoro a cui andiamo incontro, in termini di procedure e pianificazione aziendale.

Su questa linea di pensiero, le aziende potrebbero iniziare definendo quali sono i risultati concreti, oltre a precisi indicatori di performance, per monitorare gli aumenti di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, cimentandosi in un profondo ripensamento dell’organizzazione dei tempi, degli spazi e dei modi di lavorare, ridisegnando le basi su cui si fonda il rapporto tra dipendente e datore di lavoro.

Vantaggi e rischi

Saper cogliere l’opportunità di testare lo Smart Working per realizzare una tale riorganizzazione del lavoro consentirebbe ai datori di lavoro di capitalizzare gli evidenti vantaggi che questo sistema comporta: riduzione dei costi legati al mantenimento di una sede, aumento della produttività data da una migliore conciliazione tra vita privata e vita lavorativa per i dipendenti, e la possibilità di misurare la produttività non più sul numero di ore effettivamente lavorate ma sulla qualità dell’output prodotto.

Naturalmente, agli evidenti vantaggi per i datori di lavoro, fanno eco una serie di potenziali rischi per lavoratori fino ad ora poco abituati a queste modalità lavorative, e che potrebbero essere quindi più soggetti a sperimentare condizioni quali sindrome da burnout e senso di solitudine. Sarà quindi necessaria grande attenzione e cura nel ridisegnare le posizioni organizzative. Ciò includerà l’analisi del contenuto, delle responsabilità e della pianificazione delle attività lavorative, nonché i passi verso una minore centralizzazione e una minore gerarchia oltre ad avere più ruoli e meccanismi nei sistemi di gestione orizzontale.

In conclusione, la vera sfida è riuscire a portare a termine una rivoluzione culturale che introduce un nuovo modo di attuare il rapporto di lavoro tra dipendente e datore di lavoro, apportando un beneficio significativo al modello produttivo e alla stessa organizzazione del lavoro in sé.

Vincere questa sfida, seppure con limiti ed eccezioni, potrebbe costituire la risorsa decisiva per la ripresa economica del Paese e il suo definitivo ingresso nel nuovo millennio.

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