A marzo 2020 in Italia si è passati da un modello di lavoro prettamente in presenza a uno smart working al 100%, senza passaggi graduali e in piena condizione di urgenza.
Nato come agevolazione per la risorsa, con lo scopo di migliorare il tanto ambito work life balance abbattendo il tempo (e lo stress) dallo spostamento casa – lavoro, in realtà, nel corso della pandemia, lo smart working è diventato telelavoro, alternativa necessaria per non far stare a stretto contatto le persone. Tutto tranne che un modello smart.
Non fraintendiamoci: lavorare da casa ha avuto e ha tuttora un risvolto positivo…
La risorsa risparmia- abbattendo i costi di trasporto- e mantiene la propria comfort zone, responsabilizzandosi con una gestione più autonoma di tempo e modus lavorandi.
Il non poter più frequentare l’ufficio si è tradotto, però, in un venir meno delle occasioni di socialità e condivisione di idee e progetti, elementi fondamentali per un ambiente di lavoro smart e, soprattutto, produttivo.
La digitalizzazione – che doveva aiutare nella semplificazione delle mansioni lavorative e aumentare qualitativamente la produttività – diciamo la verità, è diventata sinonimo di “iper connessione”.
Molte risorse si sono ritrovate a dover svolgere i propri compiti sui dispositivi personali, con una fusione di utilizzo privato e lavorativo del proprio pc o cellulare. Il risultato? Esser maggiormente connessi e reperibili.
Questa iperconnessione, se non calibrata adeguatamente, in alcuni casi ha provocato, addirittura, maggior stress.
Tutto l’opposto di quello che dovrebbe essere l’obiettivo del digital: semplificare e alleggerire la routine.
Se nel 2018, grazie alla digital trasformation, il work life balance era la formula più ambita dai professionisti e nel biennio 20-21 ci siamo ritrovati in balia di un mero telelavoro digitalizzato, il 2022 sembra essere l’anno giusto per parlare di work life integration.
Il cambiamento e il mercato hanno dimostrato la difficoltà da parte del work life balance di prendere piede. Una modalità di lavoro che permette invece un’integrazione dei due ambiti è molto più verosimile e raggiungibile. Il futuro è infatti sempre più “liquido” e sempre più distante da una visione polarizzata.
I tempi della work life integration non solo sono maturi, ma inevitabili.
È necessario applicare una visione aziendale a 360 gradi che ponga al centro la relazione umana, rispettandone esigenze e consapevolezze.
Non basta avere lo smart working per essere più valorizzati così come non è detto che il tornare in ufficio venga interpretato come un passo indietro rispetto al concetto di flessibilità.
Sappiamo che la pandemia ha portato anche a una spersonalizzazione della mansione. La risorsa lavora da casa, diventa facilmente “intercambiabile” e i compiti che svolge possono essere eseguiti da dispositivi sempre più innovativi: la conseguenza negativa di tutto questo è che si è perso il lato umano e il suo valore.
Il rischio? Quello di diventare tutti tasselli uguali di un grande ingranaggio, perdendo le proprie peculiarità personali.
Ancora di più diventa essenziale parlare di work life integration: un modello che permette di non disperdere il valore del singolo, ma potenziarlo. Ogni persona ha la sua professionalità, ma anche la sua sfera privata: abitudini, routine e skill vanno ormai a mescolarsi e sovrapporsi inevitabilmente con i nuovi ritmi di lavoro.